“Suburban Home 3” di Paolo Merenda

I cortili delle case popolari del nostro quartiere erano pieni di biciclette abbandonate. A noi interessavano le Grazielle, quelle da donna pieghevoli: facili da smontare e più adatte ad uno dei nostri divertimenti abituali.

Gareggiavamo in maniera particolare, prendendo la rincorsa a piedi, tenendo con una mano il manubrio e con l’altra il sellino. Dopo aver lanciato la bici, vinceva chi riusciva a far più strada col catorcio, prima che quello si schiantasse contro un albero, un muro o finisse in un fosso.

La mia bici crollò su stessa quasi subito, mentre quella di Biafra e del Buddha arrivarono fino in fondo alla strada di campagna, per poi finire contro lo stesso albero. Vinse al fotofinish il Buddha che ricevette in premio due fumetti di Alan Ford, fino a poco prima nostri.

Bene bene… se andiamo avanti così alla fine dell’estate avrò una collezione completa di fumetti. A scrocco! Biafra, che aveva da poco messo l’apparecchio, commentò: Fpero che tua madre te li butti, culone che non fei altro!

Compravamo fumetti usati dal Fumettaro di via Pontida. Nuovi costavano troppo, con le nostre paghette non potevamo permetterceli. Nel negozio c’era una stanza separata da una tendina. Lì si trovavano riviste patinate con le donne nude.

Quando il Fumettaro scendeva al magazzino del piano di sotto, provavamo a darci un’occhiata. Mi facevano piuttosto ribrezzo tettone e chiappone. L’unica volta che il Fumettaro ci scoprì disse: Se per caso vostro padre ne ha di simili, e se ne vuole sbarazzare, portatele qui. Ve le pagherò bene!

Il mio non leggeva roba del genere mentre il Buddha era sicuro di averne, per cui avrebbe provato a sottrarle al padre. Pur di potersi procurare altri Alan Ford gratis avrebbe fatto qualsiasi cosa. A carnevale si vestiva da Bob Rock ciccione, con mantellina scozzese e tutto il resto.

Erano gli anni dei Goonies per cui esplorare era d’obbligo. Ora con cellulari e gps non c’è più gusto. Il Buddha aveva il vizio di intrufolarsi ovunque, anche se con quel culone faceva fatica. Notò un certo muretto di cemento e cercò di scavalcarlo.

Facendo uno sforzo tremendo, che gli fece chiazzare tutta la maglietta di sudore, riuscì a introdursi. Dopodiché iniziò da solo una perlustrazione che durò un quarto d’ora. Io e Biafra aspettavamo in silenzio all’esterno.

Culone poi ci chiamò. Disse che dovevamo raggiungerlo subito perché aveva fatto una scoperta entusiasmante. Ci arrampicammo così su quel muretto. Eravamo ormai pratici nello scavalcare cancelli con ringhiere appuntite, ci eravamo esercitati con le recinzioni degli orti.

Finimmo dentro un’enorme costruzione, piena di cunicoli bui e stanzoni con volte alte in mattoni pieni. Non c’era la minima traccia di luce artificiale e il sole non arrivava là dentro. Scovammo delle candele, ma nessuno di noi aveva un accendino o dei cerini.

Ad un certo punto il Buddha si mise a ispezionare certe nicchie che lo incuriosivano. Infilava quelle manone ovunque alla rinfusa, fino a quando trovò qualcosa. Scovò un mucchio di riviste patinate, che si rivelarono piene di tette e culo, come voleva il Fumettaro.

Dopo il ritrovamento mi ero reso conto che qualche adulto frequentava il posto e me la stavo facendo sotto per cui me ne andai al più presto. Dissi: Dai, ora filiamocela. Ci torniamo qualche volta con le torce. Il Buddha era soddisfatto. Biafra non vedeva l’ora di andarsene dalla paura.

Tornammo quindi il giorno dopo a perlustrare la costruzione con le pile elettriche. Una volta arrivati a destinazione sentimmo vociare gente al suo interno. Me la stavo facendo sotto perché potevano essere tossici o banditi. In più non c’era da scherzare neanche con la gente del quartiere.

Il Buddha si lanciò in avanscoperta. Quel culone non aveva paura di nulla. Disse: Dai, checche, la mamma non vi ha detto che l’uomo nero non esiste? Biafra era attaccato ai miei pantaloncini, mi stava quasi lasciando a culo all’aria.

Seguimmo quindi le voci e ci trovammo in una saletta adibita a bar. Scoprimmo anche dov’era l’entrata principale, di solito sbarrata e nascosta da rami d’albero. Un sacco di gente con capelli lunghi e orecchini al naso stava bevendo e scherzando.

Quasi tutti erano vestiti di nero. Sulle pareti c’erano scritte a bomboletta, soprattutto A maiuscole con un cerchio intorno e parole OKKUPAZIONE. Proprio così: Okkupazione, con due kappa. Uno di quei tizi ci accolse sorridendo.

Urlò agli altri: Ehi raga, guardate un po’ qua… abbiamo trovato delle nuove leve! I capelloni risero a crepapelle. Il Buddha a quel punto disse: Scusi, ma che razza di posto è questo? Un capellone rispose che quello era un Centro Sociale.

Biafra chiese: E cofa farebbe un centro fociale? Il capellone riprese fiato e, dopo aver buttato giù un sorso di birra rispose: Beh, ragazzi… un centro sociale okkupato è un posto libero. Ognuno può fare quel che vuole. Ora per esempio abbiamo organizzato una mostra di pittura.

Continuò dicendo: Vedete… questo è un vecchio fortino. Lo stato se ne dimentica di avere così belle costruzioni e noi lo abbiamo preso in prestito. Questo vuol dire okkupare. Se una cosa è abbandonata diventa di chiunque, è facile! Non vi pare una buona idea?

A quel punto un capellone ci offrì da bere una lattina di birra. Non ne avevo mai bevuta una prima. Aveva un gusto amaro rispetto a tutto ciò che avevo ingurgitato fino a quel giorno. In più l’alcol mi fece subito girare la testa.

Diventai rosso e cominciai a ridere senza motivo. I capelloni si divertivano nel vedermi in panne. Chissà se avevano scoperto del furto di riviste per adulti. Ci incamminammo verso casa fra risa generali.

Il Buddha disse: Dai, andiamo alla fabbrica abbandonata! Ribattei: Ma è giorno, qualcuno ci beccherà! Il Buddha era troppo testardo e non mi degnò di risposta. Imboccammo la strada per la grande fabbrica abbandonata.

Era mostro enorme che cadeva a pezzi da anni, responsabile di aver inquinato il fiume del nostro quartiere. La fabbrica era piena di finestre, alcune rotte. Molti buchi erano opera nostra. Iniziammo così a scagliare pietre raccolte lungo le strade di ghiaia.

Quei vetri si fracassavano come niente. Crash! E giù uno. Crash! E giù l’altro. Al terzo Crash! Sentimmo qualcuno urlare dal balcone e scappammo. Ci fermammo a riprendere fiato senza però accorgerci di una signora che era corsa in casa a prendere in casa un secchio.

La megera ci rovesciò addosso qualche litro di acqua gelida mentre urlava: Delinquenti, finirete al riformatorio! Fu così che per asciugarci imboccammo una strada in mezzo alla campagna. Il nostro quartiere una volta era solo fattorie e campi.

Dopo quasi mezz’ora di strada ci imbattemmo in una casa. Era una villetta a due piani tutta fatiscente. Sotto una tettoia era parcheggiata una vecchia Mercedes senza targa. La casa sembrava abbandonata, mancavano le finestre e la facciata cadeva a pezzi.

La porta c’era, ma era aperta così entrammo a fare un giro. Hey… disse il Buddha …questa casa sarebbe perfetta per noi! Potremmo okkuparla come diceva il capellone, no? Biafra si stava già entusiasmando e disse: Fi, fi! Fico!

Culone tornò per primo al piano terreno e, dopo aver guardato attentamente la Mercedes, corse nel capanno degli attrezzi. Ne tornò con un badile arrugginito e iniziò a fracassare l’auto abbandonata, fino a che fu esausto.

Tornando verso casa ci imbattemmo in tre ragazzine che dovevano avere più o meno la nostra età. Di sicuro non frequentavano la nostra scuola, non le avevamo mai incontrate prima d’ora. Ed evidentemente non abitavano nel quartiere fino a quel giorno.

Una di loro era secca, la seconda un po’ cocciottella, diciamo della misura di Culone, mentre la terza era media, un po’ come me. Quelle tre se ne stavano girando tranquillamente per i fatti loro lungo la strada di ghiaia che porta al fiume.

Il Buddha disse: E queste? Da dove arrivano! Biafra ribattè: Mamma dice che ora tanta gente vuole fpoftarfi dal centro verfo la periferia. Là, in mezzo al cemento, non fi refpira. Tacqui, ma pensavo che quella di mezzo era carina.

Dopodiché il Buddha urlò: Fermiamole! Mi opposi fermamente, ma Culone insisteva. Dai, diciamo loro che abbiamo okkupato la casa in mezzo ai campi! Facciamo i fichi! Quello stecchino di Biafra ribatté: Fì, fì, io ci fto! Sputava ormai ad ogni sillaba dall’emozione.

Ma che gliela mostriamo a fare! Dissi dubbioso e impaurito. Ehi, Gufo! Non fare la checca… prima o poi dovrai baciare una ragazza, no? Baciare una ragazza. Perché mai avrei dovuto fare una cosa del genere. L’avevo visto fare nei film e mi faceva ribrezzo.

Non volevo però che Culone mi desse della checca. Il Buddha però voleva prima fare un salto al centro sociale. Mi opposi, ma lui non ci sentiva. Essendo un giorno feriale passammo dal retro. Il Buddha scavalcò il muretto e sparì per un quarto d’ora.

Fece poi un fischio e in quel momento vidi schizzare delle lattine di birra. Culone doveva essere impazzito. Ne aveva sottratte un bel po’ a quei capelloni. Se l’avessero scoperto ci avrebbero fatto a pezzi.

Scavalcò il muro in un bagno di sudore e, con l’espressione soddisfatta levò la linguetta da una lattina di birra. Il liquido schiumoso schizzò fuori come una fontana. Le birre erano calde come il tè della mattina.

Il Buddha bevve ed esclamò: Evvai, ora ce ne beviamo una a testa e andiamo alla ricerca delle tre gallinelle! Lo guardai storto e dissi: Culone, ti sei sentito? Parli come Bo & Luke. Montammo dunque in bici e, procedendo a zig – zag, sperammo di incontrarle allo stesso posto.

Il Buddha rincarò la dose dicendo: Ho un piano. Le fermo e dopo le portiamo nella casa. Se qualcuno di noi riesce a baciare una ragazza vince tremila lire. Culone aggiunse soltanto: Dai, fuori i soldi. Mille lire a testa. Faccio da cassiere.

Fortuna (o sfortuna) volle che le ragazzine fossero ancora da quelle parti. Forse se ne andavano sulla riva del fiume inquinato a prendere il sole. Il Buddha tagliò loro la strada. Si fece grosso in petto e, mezzo ubriaco, disse: Hey, ragazze! Come va?

Quelle si misero a ridere in coro. La media era proprio carina, soprattutto quando rideva, faceva le fossette. Erano tutte e tre evidentemente imbarazzate più di noi. Non so perché quella ragazzina mi faceva un effetto diverso dalle mie compagne di classe.

Culone le convinse a farsi un giro in bici e ci seguirono fino alla villa. Arrivammo a destinazione, dopo aver lasciato le bici legate a un palo della luce. I campi erano fitti in quel punto, per cui ci si poteva arrivare soltanto a piedi.

Davanti alla villa il Buddha disse: Questa è la nostra casa per l’estate, l’abbiamo okkupata! S’impettì, tutto orgoglioso della cazzata sparata. Le tre scoppiarono a ridere, così Culone spiegò loro cosa voleva dire okkupare, scopiazzando le parole del capellone.

Dopodiché sparò: Ora ragazze, mi dispiace, ma se volete entrare si deve pagare un tassa, mille lire a testa. Una volpe cicciona. Non voleva rischiare soldi di tasca sua. Le tre ridacchiarono di nuovo rumorosamente, dicendo che non avevano soldi con loro.

Il Buddha disse quindi deciso: Okkey, allora ci darete un bacio. Nel sentire quelle parole rabbrividii. Le tre si avvicinarono quindi a noi parlottando sottovoce fra di loro e ridacchiando. Non sembravano troppo contrariate dal pegno.

Lo stecco andò dritta verso Biafra, la media puntò me e la cicciotta si diresse verso il Buddha. Sentii quelle labbra morbide e profumate di ciliegia appoggiarsi sulle mie mentre avvampavo. Così rimediammo il nostro primo bacio.

(Paolo Merenda)