“Stai dietro al leone” di Antonella Cipriani

«Stai dietro al leone » questo sentii sussurrare in modo flebile dalle labbra di mio padre a letto da più giorni per una brutta influenza.

Ero disteso al suo fianco, come conviene fare in simili casi, nel mio ruolo di figlio preoccupato per gli esiti infausti che una possibile complicanza avrebbe potuto creare in un fisico più che novantenne. Mi ripresi dal sopore nel quale ogni tanto anch’io mi immergevo. Mi tirai su, appoggiando tutto il peso del mio corpo sul braccio destro e avvicinandomi al suo volto azzardai:

« Che leone?».

Sapevo che la mia domanda era stupida o meglio era stupida la pretesa di voler ottenere qualcosa da una persona addormentata, ma l’idea di entrare nel suo sogno e vedere in quali meandri la sua mente lo stava portando, mi solleticava assai, oltre a incuriosirmi. Ebbi in risposta soltanto dei bisbigli senza senso. Continuai a fissarlo nella speranza che ancora qualche parola uscisse dalla sua bocca riarsa, anche solo una, affinché mi fornisse un piccolo indizio della storia che stava vivendo.

Sono sempre stato un grande sognatore, anche da sveglio. Sogno spesso e mi piace farlo. Si direbbe che spesso vado a letto più che per stanchezza, per sognare. Mi perdo nei miei sogni e quando mi sveglio, se non mi faccio sopraffare dalla pigrizia, li annoto veloce sul taccuino. Ne ho già riempiti tre da quando mi sono deciso a farlo, solo un anno fa. La cosa buffa è che quando li rileggo non li ricordo, è come se leggessi quelle storie per la prima volta. Forse dipende dal fatto che i sogni a differenza delle cose reali, non lasciano impronta nella memoria. Per questo mi impegno a scriverli, per non perderli.

Ma ritornando al discorso di mio padre, quel sogno, quel leone che correva, mi stava davvero tormentando. Cominciai a farmi una serie di domande per venire a capo della storia, dubitando che dalla bocca di mio padre uscisse ancora qualcosa di interessante. Adesso dormiva sodo e russava pure.

In che luogo si trovava? A chi era rivolto il suo imperativo? C’erano altre persone in questa caccia alla bestia feroce? Dedussi che si trovasse in una foresta, magari una savana, comunque un’enorme spazio aperto, immerso nella calura equatoriale. Mio padre non è mai stato in Africa, ma l’ambientazione potevano benissimo avergliela suggerita i documentari che ogni giorno guarda alla televisione e che gli piacciono tanto.

Perché un leone?Che significato aveva la belva feroce? E l’inseguimento? Come si poteva interpretare un simile sogno?

Mi fermai qui. Avevo già formulato anche troppi interrogativi, nella speranza vana che mio padre si svegliasse e appagasse la mia curiosità. Il suo russare era la sola risposta ai miei cavilli mentali.

Così, come in preda a una forza incontrollabile, mi alzai e recuperai in cucina un paio di fogli bianchi e una penna. Mi misi di nuovo al suo fianco e al ritmo cadenzato del suo russare, cominciai a scrivere come se fosse lui a raccontare:

« Sono in Africa, il caldo è forte ma sopportabile. Non infiacchisce perché è secco e poi non ci sono zanzare. Ho quarant’anni, lo deduco dai capelli ancora scuri che mi ricoprono la testa, anche se la stempiatura già comincia a farsi strada e a cambiare un po’ la fisionomia del mio volto. Un paesaggio piatto che si perde all’orizzonte, fatto di bassa vegetazione, arbusti , baobab dal fusto robusto e acacie. Una colonia di elefanti sostano lenti e assonnati sotto la chioma a ombrello del baobab più grande. Non so perché mi trovo qui, in questa savana. Mentre osservo il cielo terso e prosciugato da ogni goccia d’acqua, avverto la mia solitudine. Sono solo, ma non soffro, anzi. Mi sento sicuro e forte immerso in questa natura selvaggia. Il sole picchia duro tanto che se avessi un uovo da rompere su una pietra, lo cuocerei in pochi minuti. Tiro fuori dalla tasca dei calzoni un fazzoletto di cotone, dal tessuto spesso, quello su cui mia moglie ha ricamato LC, le mie iniziali, ne annodo gli angoli da farne una sacca della misura del mio cranio, e lo capovolgo sulla testa. Adesso va meglio. Mi giro intorno, a trecentosessanta gradi come un periscopio emerso dalle viscere della terra: solo baobab, cespugli, acacie, qualche pietra. E gli elefanti. Sono così lontani, così pacifici nel loro lento indugiare, così pigri nel loro scodinzolare per scacciare il fastidio delle mosche e degli insetti. A un tratto una presenza rompe la mia solitudine. Un fruscio secco e leggero d’erba alle mie spalle mi fa girare. Non ho paura. Intuisco bene. Dietro me, Enzo e Dino, i miei cognati, con indosso la mimetica da cacciatori, quella che vestono per la caccia al cinghiale in Maremma. Mi rendo conto solo in quel momento che il mio vestiario non è così consono alla circostanza. Me lo mormora il prurito scatenato dai fili d’erba sui miei polpacci. Ho calzoni corti da mare e una canottiera di cotone bianco, a costine. Niente calzini ma scarponi pesanti, da esploratore. Mi ricordano quelli che indossavano i soldati americani che mi regalavano la cioccolata ai tempi della guerra.

Poi la voce di mio figlio, improvvisa, squillante:« Babbo, che facciamo?». Abbasso lo sguardo e lui è lì, apparso d’incanto al mio fianco, come solo i sogni riescono a fare. Ha forse sei anni, avvolto come un fagotto nella divisa di balilla. Sembra un piccolo uomo. Calzoncini grigio verde sopra il ginocchio, camicia nera, una fascia intorno alla vita, un foulard blu al collo e il fez nero come copricapo. Sto per aprir bocca, non per rispondere alla sua domanda, ma per far esplodere la rabbia che il suo abbigliamento mi provoca. Che razza di vestiti ti sei messo? Ma un’esplosione ancor più forte mette a tacere la mia. È il potente ruggito di un leone, che fa tremare le viscere della terra, scuotere gli alberi fino alle radici, destare e correre gli elefanti verso l’orizzonte del deserto. Vedo i miei cognati imbracciare all’istante i fucili. Allungo il mio braccio sinistro per avvicinare il bambino, nell’illusione di proteggerlo.

Un leone, una belva di una maestosa bellezza da pietrificare chiunque, avanza a pochi metri di distanza davanti a noi. La criniera è il dettaglio che mi cattura più di ogni altro particolare, così bella, regale, come una cornice che impreziosisce il volto, metà gatto e metà cane. L’intensità felina dello sguardo mi fa rabbrividire, nel momento che realizzo che i suoi occhi guardano solo me, come preda prescelta, pietanza del suo pasto giornaliero. Adesso dovrei allontanare il bambino da me, nasconderlo alla sua fame. Ma non riesco a muovere neppure una falange. Basterebbe una leggera pressione della mano sul suo corpicino per spingerlo e sottrarlo alla sua vista. Ma niente il corpo è fermo, vuoto di ogni volontà. Solo il mio sguardo si muove spostandosi dalla bocca alla criniera, dai baffi agli occhi, girovagando sul muso ora cane,ora gatto. Un vento improvviso si alza nel cielo, scompiglia la criniera e poi la pettina con l’arroganza di portarsi via ogni intenzione. Gli occhi della belva ora si socchiudono languidi, in un lento su e giù di palpebre, come se pesanti gocce d’acqua vi cadessero sopra. E come catturato dal vento, il leone lo segue, diretto nella sua direzione, trasversale alla nostra, sulla scia degli elefanti, nel suo incedere elegante. L’ osservo allontanarsi e il velo di sudore che mi ricopriva la fronte si asciuga.

« Allora babbo che facciamo?» mio figlio è aggrappato al mio braccio, lo tira che sembra voglia strapparmelo dalla spalla.

I miei cognati hanno già abbandonato i fucili lungo il corpo senza ancora aver proferito parola. Il vento sembra concedersi una tregua in questa landa desolata.

« Stai dietro al leone» gli rispondo deciso e tutti insieme, mio figlio in testa, ci mettiamo in fila al suo seguito».

Un forte colpo di tosse colse mio padre a quel punto della storia, facendolo svegliare. Quando si riprese dall’attacco, feci l’ultimo tentativo di estorsione.

«Babbo, prima parlavi nel sonno. Dicevi di un leone… ti ricordi qualcosa?»

« Un leone?»

« Sì incitavi qualcuno a inseguirlo»

Le sue labbra sorrisero e in quel momento si accese in me di nuovo la speranza.

« Quando sei nato avrei voluto chiamarti Leone » mi disse.

« Stai scherzando? Ma che razza di nome è Leone!» gli risposi un po’ sopra le righe sebbene non ci fosse più un reale motivo per esserlo.

« Devi ringraziare tua madre se ti chiami Riccardo»

« E meno male. Come diamine ti era venuto in mente un nome così… ridicolo?» continuavo a ripensarci e a scaldarmi senza senso e con la sensazione aggiunta di sentirmi tradito per qualcosa che non avevo mai saputo e scoprivo solo allora per la prima volta.

« Leone era il mio compagno di banco delle elementari. Si chiamava Carlo in verità, ma tutti noi lo chiamavamo così per quella criniera di capelli che si ritrovava in testa. Era un persona speciale, un amico, ci siamo divertiti tanto insieme! Ne inventavamo sempre una, come quella volta che abbiamo rincorso le suore e le abbiamo tirato su le sottane. ».

E cominciò a ridere di gusto fino a provocarsi la tosse.

« E poi, che fine ha fatto? Siete rimasti amici?»

« Eravamo in quinta elementare, se mi ricordo bene. Un giorno mi disse che se ne sarebbe andato da Firenze. Suo padre aveva avuto un incarico di lavoro a Trieste e tutta la famiglia si trasferiva lì. Non finimmo neppure l’anno scolastico insieme. Da allora non ci siamo più rivisti… parecchio tempo dopo ho saputo che si era arruolato nell’esercito, poi ho perso sue notizie ».

Lo vidi socchiudere gli occhi e incrociare le braccia. Il nostro discorso finì così. Lo lasciai andare lungo i sentieri del suo ricordo mentre il mio sguardo si soffermò ancora sul suo viso stanco per poi posarsi sul foglio sporco di inchiostro blu che tenevo sulle ginocchia: la storia ce l’avevo anche se non era la sua.

(Antonella Cipriani)